Servizi internet a pagamento
A cura di Giovanni Crea
Il trattamento di dati personali ‘ulteriore’ a quello necessario per la fruizione di un servizio on line (es., accesso a un sito internet) è soggetto al consenso dell’utente-interessato previsto dall’art. 5.3, primo periodo, della direttiva e-privacy . Il consenso dovrebbe derivare da un interesse della persona cui i dati si riferiscono per le finalità di tale ulteriore trattamento (es., ricevere pubblicità durante la navigazione).
La Direttiva (UE) 2019/770, che disciplina alcuni aspetti dei contratti di fornitura di contenuto digitale e di servizi digitali riconosce lo scambio “servizio-dati”; nella prospettiva di tale direttiva il consenso – che si riferisce a una controprestazione in dati personali – è elemento strutturale del contratto.
Premesso che in caso di conflitto tra la Direttiva (UE) 2019/770 e il Regolamento(UE) 2016/679 (GDPR) prevale quest’ultimo, per essere considerato ‘libero’ ai sensi di tale regolamento, il consenso all’ulteriore trattamento non deve essere ‘obbligato’, ad esempio, ponendolo come condizione per l’accesso al servizio.
Come emerge dalle linee guida dell’EDPB , il gestore del sito (titolare del trattamento) deve prevedere un’alternativa con caratteristiche tali che l’eventuale scelta di rilasciare il consenso possa considerarsi libera. Sotto un altro profilo – invero non affrontato dall’EDPB – l’alternativa al consenso può essere portatrice di un diritto fondamentale; in tale evenienza, il diritto alla protezione dei dati personali – di cui, nel caso di specie, il “consenso libero” è espressione – deve trovare un equilibrio con la predetta alternativa. Per questo motivo la controprestazione monetaria, essendo espressione della “libertà d’impresa” riconosciuta dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue all’art. 16, di per sé non integra una violazione del GDPR con riguardo alle condizioni di validità del consenso.
Peraltro, in quanto alternativa al consenso, il pagamento in moneta descrive uno schema diverso dal cookie wall che, invece, non prevede alcuna alternativa, e che, come indica l’art. 7.4, gdpr, va tenuto nella massima considerazione ai fini della valutazione della libertà del consenso.
Va da sé che, in una prospettiva di bilanciamento degli interessi, la controprestazione monetaria non deve essere sproporzionata rispetto al servizio offerto, tale da far ripiegare l’interessato su un consenso che, con tutta probabilità, rifletterebbe una scelta non libera.
- Ad es., con riguardo ai quotidiani on line, il prezzo praticato all’edicola potrebbe essere un utile riferimento per la fissazione del prezzo on line. Sicché, se il prezzo on line è uguale o anche inferiore al prezzo all’edicola si potrebbe ragionevolmente concludere che l’eventuale ripiego dell’interessato sul consenso sia espressione di una scelta libera.
[1] Cfr. Direttiva 2002/58/CE come modificata dalla Direttiva 2009/136/CE, in GUUE L 337, 18 dicembre 2009, p. 11 ss.
[2] Cfr. Direttiva (UE) 2019/770, relativa a determinati aspetti dei contratti di fornitura di contenuto digitale e di servizi digitali, in GUUE, L136, 22 maggio 2019, p.1 ss.
[3] Cfr. EDPB, Linee guida 5/2020 sul consenso ai sensi del regolamento (UE) 2016/679, 4 maggio 2020.
[4] Al riguardo, si rinvia al quarto considerando del GDPR secondo il quale il diritto alla protezione dei dati di carattere personale non è una prerogativa assoluta, ma va contemperato con altri diritti fondamentali, in ossequio al principio di proporzionalità. Lo stesso considerando afferma che il GDPR rispetta tutti i diritti fondamentali e osserva le libertà e i principi riconosciuti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE, sanciti dai trattati, tra cui la libertà d’impresa.
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Giovanni Crea
Direttore del Centro di Ricerca e Formazione Integrata Selefor, responsabile scientifico e Presidente del Comitato Tecnico-Scientifico con delega Data Protection.
Economista, è professore incaricato di “Economia Aziendale e Processi di amministrazione del lavoro” presso l’Università Europea di Roma, dal 2014 insegna la materia di “Protezione dei dati personali” presso Master Universitari e Corsi specialistici.
Risanamento del gap salariale
di Concetta Capuano
Gender gap nel mondo: la situazione attuale
Si parte da una premessa, che è tratta dalla definizione di “Uguaglianza di genere” dell’EIGE (European Institute for Gender Quality): “L’uguaglianza di genere implica che gli interessi, i bisogni e le priorità di donne e uomini siano presi in considerazione, riconoscendo la diversità dei diversi gruppi di donne e uomini… L’uguaglianza tra donne e uomini è vista sia come una questione dei diritti umani, sia come precondizione e indicatore di uno sviluppo sostenibile incentrato sulle persone”. [1]
Ormai ben consolidato nel nostro vocabolario, il gender gap, è la discrepanza tra uomini e donne, in termini sociali, culturali, educativi, salariali ed occupazionali. A luglio 2022 è stato pubblicato il più recente Global Gender Report che restituisce uno scenario mondiale ancora lento su questo fronte, ovvero che “la parità di genere non si sta riprendendo […] ci vorranno altri 132 anni per colmare il divario di genere globale. Con l’aggravarsi delle crisi, i risultati della forza lavoro femminile stanno soffrendo e il rischio di un regresso della parità di genere globale si intensifica ulteriormente”. [2]
Gender gap in Italia nel mondo del lavoro e dell’istruzione
In Italia, la disuguaglia tra donne e uomini è – purtroppo – ancora fortemente radicata: lo dimostra il fatto che anche le campagne politiche “si servono” dell’argomento della lotta al gender gap, ad esempio, nei loro programmi.
Frutto di retaggi culturali ancora spesso inconsciamente radicati, il gender gap nel mondo del lavoro si veste soprattutto da gap salariale. Questi archetipi tendono a riproporsi in manager e organizzazioni che propinano stipendi diversi alle colleghe donne. Ciò potrebbe esacerbare il rischio di povertà o esclusione sociale, conflitti lavoro-famiglia, ripercussioni su salute e benessere.
Spesso però siamo noi stessi a interiorizzare pensieri e credenze erronei, come quando non ci sentiamo adatti per una determinata mansione/percorso di studi/lavoro: quante volte abbiamo ascoltato la favola (tutta italiana) della donna che “se insegna ha il lavoro perfetto, così poi ha il restante tempo della giornata da dedicare alla famiglia!” o dell’uomo che deve trovare un lavoro notevole e che garantisca uno stipendio alto. E noi ci crediamo. Troppe volte non scegliamo per soddisfazione personale, ma per “soddisfazione sociale”. Potrebbe essere questo uno dei motivi per il quale le donne sono sottorappresentate nei settori STEM (science, technology, engineering and mathematics) e il divario di genere è prevalente in due campi: tecnologie dell’informazione e della comunicazione e ingegneria e produzione (indagine EIGE).
Ma c’è un dato interessante per chi studia/lavora in ambito STEM…
Nelle ultime settimane è stata pubblicata dall’Area Lavoro delle ACLI Nazionali, in collaborazione con il Coordinamento Donne ACLI l’indagine “Lavorare dis/pari, ricerca su disparità salariale e di genere”, che ha beneficiato della banca dati Caf Acli e Patronato Acli.
Conferma che il “lavoro povero” è un vissuto soprattutto femminile: tra i lavoratori/trici saltuari/e coloro i quali hanno un reddito annuo complessivo fino a 15.000 euro sono il 68,1% tra le donne, percentuale che scende al 51,5% tra gli uomini. Ma anche tra i/le lavoratori/trici stabili i valori registrati per quella fascia di reddito sono rispettivamente del 24,6% contro il 7,8%.
C’è però un dato che sorprende – perché ciò che dovrebbe essere ordinario appare ancora straordinario – ovvero che se teniamo conto della settorialità dei lavoratori, l’81,8% delle donne laureate che lavora in ambito STEM guadagna oltre i 1500 euro netti al mese, mentre i colleghi uomini a percepire lo stesso stipendio sono il 79,3% [3]. Ciò significa che non solo il gap salariale è nullo, ma le donne guadagnano di più.
Oltre a dei passi avanti nell’invalidare le disuguaglianze tra generi, di sicuro questa potrebbe essere la base per incoraggiare sempre più ragazze a intraprendere studi STEM per formare figure sempre più richieste dal mercato del lavoro.
[1] EIGE (European Institute for Gender Equality) (undated), ‘Gender equality’ in ‘Concepts and ideas’, https://eige.europa.eu/gendermainstreaming/concepts-and-definitions
[2] World Econominc Forum, Global Gender Gap Report 2022
[3] Acli, Lavorare dispari, Ricerca su disparità di genere e salariale
[1] Happily, aumento massimale fringe benefit, 2022
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Concetta Capuano
Tirocinante psicologa presso Selefor srl
Caro vita, lavoro e povertà
di Giuliana Cristiano
Le politiche attive del lavoro sono tutte quelle iniziative introdotte dalle Istituzioni, nazionali e locali, per promuovere l’occupazione e l’inserimento lavorativo. I servizi proposti da queste politiche possono essere erogati in primis dai centri per l’impiego, ma anche da Agenzie per il lavoro, scuole e università, nonché dai comuni e dalle associazioni di dipendenti e datori di lavoro[1].
Tra le misure più conosciute vi sono senza dubbio il programma “Garanzia Giovani” e il “reddito di cittadinanza”.
Ma andiamo a vedere più del dettaglio come reagiscono gli Italiani a queste politiche attive.
“Garanzia giovani” è un programma che si rivolge alle imprese e ai datori di lavoro che vogliono inserire nel proprio organico risorse giovani e formate, e al contempo, beneficiare delle agevolazioni previste dal programma stesso che consistono in bonus per le nuove assunzioni (tirocini, apprendistati o passaggi da tirocinio a contratto di lavoro). Inoltre, sono anche previsti degli strumenti per agevolare l’autoimprenditorialità dei giovani che vogliono mettersi in proprio[2].
Anpal rispetto all’adesione a “Garanzia Giovani” riporta dei dati molto interessanti, infatti, al 31 luglio 2022 i Neet (Not (engaged) in Education, Employment or Training, ovvero coloro che non studiano e non lavorano) registrati al programma erano 1.681.329, con un incremento di 7.281 unità rispetto a giugno. I servizi per l’impiego hanno preso in carico più dell’85% dei registrati e di questi quasi l’80% è costituito da giovani con elevate difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro.
Al termine del percorso quasi il 68% degli iscritti ha trovato occupazione e molti di questi a tempo indeterminato. C’è però da precisare che il divario Nord e Sud Italia si percepisce anche in queste stime con lo svantaggio del meridione[3].
In ogni caso, al di là delle disparità territoriali, emerge chiaro il fatto che i giovani italiani oggi sono motivati a trovare una soluzione alla loro condizione di precarietà, lavorando su sé stessi, formandosi e creandosi un’alternativa valida alla disoccupazione e alla povertà.
Discorso diverso invece deve essere fatto per un altro strumento: il tanto discusso e dibattuto “reddito di cittadinanza”.
Questo è una misura di politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, che è stata introdotta nel marzo 2019 e che si esplica in un sostegno economico che si integra al reddito familiare. Questa misura oltra a prevedere un sussidio per un lasso di tempo determinato, prevede anche un percorso di reinserimento lavorativo e sociale siglato da un patto di lavoro o un patto di inclusione sociale[4].
Ogni regione italiana, dunque, si è mossa per favorire l’utilizzo di questo strumento, confidando nella sua utilità e in una effettiva possibilità di riqualificazione di quei nuclei familiari più svantaggiati e in difficoltà.
Oggi però, a quasi tre anni dall’introduzione del RDC, nonostante siano molte le persone che hanno richiesto e beneficiato di questo strumento, nono sono altrettanto numerose coloro che hanno concluso il percorso di reinserimento lavorativo. Il quadro infatti è abbastanza allarmante al nord come al sud Italia.
- In Campania, per esempio, negli ultimi 18 mesi gli imprenditori campani hanno caricato sull’apposita piattaforma MyAnpal 9945 offerte di lavoro, ma le assunzioni di chi percepisce il reddito di cittadinanza sono pari a zero. Nel settore dei servizi dove vi sono più vacancies aperte, non è stata registrata alcuna assunzione, nel settore dell’edilizia invece, su 1716 offerte, vi sono state solo 74 assunzioni[5].
Questo a dimostrare che nonostante vi siano possibilità di lavorare e nonostante i Centri per l’impiego si mobilitino per la ricerca di personale, i beneficiari di questa misura non fanno altrettanto; probabilmente perché non vi sono dei veri e propri controlli nel processo, né sono previste sanzioni per coloro che rifiutano le offerte di lavoro proposte. Si specifica infatti, che i beneficiari del reddito, devono sottoscrivere un patto di lavoro con i centri per l’impiego, ma fino ad oggi, come detto, le prese in carico sono state veramente poche. In Campania nello specifico si sta provvedendo alla cancellazione dall’elenco dei beneficiari le persone con non rispettano il patto, ma la situazione è analoga anche in altre regioni d’Italia[6].
- La Lombardia, per esempio, ha un quadro simile; infatti, nel 2021 a Milano, su più di 10.000 beneficiari convocati per un primo incontro e la presa in carico dai centri per l’impiego, solo circa 3600 si sono presentati, la restante parte ha completamente disertato o si è resa irreperibile tanto da spingere i suddetti centri a consegnare la convocazione tramite raccomandata. Nel 2022 la situazione è anche peggiorata tanto che i beneficiari in carico sono addirittura dimezzati[7].
Senza dubbio sono ancora molte le misure da poter introdurre e tanto deve essere fatto sia da parte delle istituzioni sia da parte delle imprese e dei lavoratori, ma iniziare a sfruttare ciò che già si ha, potrebbe essere un primo passo verso una, almeno parziale, risoluzione della disoccupazione e della povertà, in un periodo storico in cui le crisi sembrano non voler smettere di susseguirsi.
[1]https://www.lavoro.gov.it/temi-epriorita/occupazione/Pagine/orientamento.aspx#:~:text=Le%20politiche%20attive%20del%20lavoro,occupazione%20e%20l’inserimento%20lavorativo.
[2] https://garanziagiovani.anpal.gov.it/cose-azienda
[3] https://www.anpal.gov.it/documents/552016/821517/S1_Nota+mensile+n7_luglio.pdf/3ff14e73-add0-8b66-a785-6df46eae7523?t=1665730071878
[4] https://www.redditodicittadinanza.gov.it/schede/dettaglio
[5] Iuliano, V., (2022) “Reddito di cittadinanza, in Campania 9.945 lavori ma nessuno li accetta”, Il mattino, online. https://www.ilmattino.it/napoli/politica/campania_reddito_di_cittadinanza_offerte_di_lavoro-6751242.html?refresh_ce
[6] Ibidem
[7] Gianni, A. (2022), “Reddito di cittadinanza, fuga dal Centro per l’impiego. Il 60% dei convocati non ci va”, Il giorno, online. https://www.ilgiorno.it/milano/cronaca/centro-impiego-fuga-reddito-cittadinanza-1.8160428
RIFLESSIONI SULLA NATURA DI ESSENTIAL FACILITIES DEI DATI PERSONALI
A cura di Giovanni Crea
L’esperienza dell’offerta di servizi attraverso internet (comprese le app) ha messo in luce come il loro consumo venga inevitabilmente codificato in dati (es., google maps) e come tali dati siano oggetto di trattamenti effettuati per finalità sia ‘tecniche’ – legate, cioè, alla fornitura e fruizione del servizio – sia di interesse economico del titolare del trattamento.
Con riguardo a quest’ultimo profilo, la disponibilità di grandi masse di dati (big data) rende possibile costruire profili degli utenti-interessati su cui ritagliare i propri servizi ovvero – spostandoci sul versante della raccolta pubblicitaria – per vendere spazi pubblicitari agli inserzionisti consentendo a questi di proporre a livello individuale i loro prodotti e servizi.
I mercati dei servizi internet, dunque, sono data intensive, e le posizioni dominanti che in essi si formano trovano nei dati personali una lèva essenziale [1] la cui replicabilità non è scontata in quanto riguardano i clienti dei provider e che gli stessi provider tendono a non diffondere per ragioni di vantaggio competitivo [2].
Questa prospettiva apre all’ipotesi della natura di essential facilities dei dati personali raccolti nei mercati di internet; profilo che, secondo la dottrina antitrust, è un elemento qualificante della posizione dominante, e la cui inibizione a potenziali concorrenti, da parte dei titolari, prefigura un abuso di tale posizione vietato dall’art. 102 TFUE.
Nel caso Google-Hoda [3], in cui ricorre l’ipotesi di ostacoli, da parte del motore di ricerca, alla portabilità dei dati – e dunque, in definitiva, all’accesso/trasferimento a favore di Hoda – l’Agcm sottolinea la valenza pro-concorrenziale di tale istituto, lasciando intendere come tali dati possano essere inquadrati nella categoria delle “risorse essenziali”.
Se i dati personali, descrittivi delle abitudini di consumo di beni e servizi forniti da un’impresa, fossero facilmente replicabili, la violazione dell’art. 20 del GDPR rileverebbe per il solo profilo di mancato esercizio di un diritto degli interessati e non anche per gli aspetti antitrust.
[1] Cfr. Agcm, Provvedimento n. 28051, Big Data, in Boll., n. 9/2020, 13 ss.
[2] Cfr. Agcm, Provvedimento n. 19140, Sfruttamento di informazioni commerciali privilegiate, in Boll., n. 47/2008, 5 ss.
[3] Cfr. Agcm, Provvedimento n. 30215, Google-ostacoli alla portabilità dei dati, in Boll., n. 27/2022, 83 ss.
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Giovanni Crea
Direttore del Centro di Ricerca e Formazione Integrata Selefor, responsabile scientifico e Presidente del Comitato Tecnico-Scientifico con delega Data Protection.
Economista, è professore incaricato di “Economia Aziendale e Processi di amministrazione del lavoro” presso l’Università Europea di Roma, dal 2014 insegna la materia di “Protezione dei dati personali” presso Master Universitari e Corsi specialistici.