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Il riutilizzo dei dati detenuti da enti pubblici: le disposizioni della Commissione Europea

Articolo a cura di Redazione Selefor CReFIS

Il primo dei quattro macro-temi trattati e regolamentati dal Data governance act[1]è “il riutilizzo di determinate categorie di dati protetti, detenuti da enti pubblici”.

Innanzitutto, è opportuno richiamare alcune definizioni:

  • I “dati” sono una qualsiasi rappresentazione digitale e raccolta di atti, fatti o informazioni in ogni forma di registrazione (audiovisiva, sonora o visiva);
  • Per “riutilizzo” invece si intende l’uso da parte di persone fisiche o giuridiche di dati già in possesso da enti pubblici. Questi dati potranno quindi essere usati nuovamente per fini commerciali e non commerciali, dunque, per scopi diversi da quelli per cui erano stati raccolti in origine, ma non potranno essere scambiati tra enti pubblici in quanto in questo caso potranno essere scambiati solo per ottemperare ai compiti di servizio pubblico.

Va preliminarmente specificato che il riutilizzo dei dati non è possibile per tutte le categorie; si applica infatti a dati protetti per motivi di riservatezza commerciale, riservatezza statistica, oppure a dati protetti per preservare la proprietà intellettuale e a tutti quei dati che non rientrano già nell’ambito di applicazione della direttiva 2019/1024[2].

Diversamente i dati detenuti dalle imprese pubbliche, i dati detenuti dalle emittenti di servizio pubblico e dalle società da esse controllate, i dati detenuti da enti culturali e di istruzione, quelli protetti per la pubblica sicurezza e così via, non possono essere riutilizzati.

Il regolamento in materia di riutilizzo dei dati vieta ogni forma di accordo di esclusiva tra enti sul riutilizzo dei dati, salvo l’eventualità in cui vi sia la necessità per la fornitura di un servizio che altrimenti non potrebbe essere erogato. Anche in questo caso però ci saranno delle limitazioni temporali, infatti gli accordi di esclusiva dovranno avere durata massima di 12 mesi.

Ma quali sono le condizioni per il riutilizzo?

In questo caso entra in gioco lo “sportello unico” che deve essere creato appositamente da ognuno degli Stati membri designando un ente o una struttura già esistente per svolgere questo incarico in modo da rendere tutte le procedure e le informazioni facilmente reperibili e disponibili a chiunque voglia usufruire del servizio. Lo sportello può anche essere collegato a sportelli settoriali, regionali o locali ed è possibile renderlo automatizzato purché vi sia però un sostegno adeguato da parte delle autorità competenti. Lo sportello unico, tra l’altro, potrà anche istituire un canale ad hoc specifico e semplificato per le PMI e per le startup che richiedono il riutilizzo dei dati. La Commissione dal canto suo creerà un unico registro elettronico consultabile presso gli sportelli unici nazionali, inoltre metterà a disposizione tutte le informazioni necessarie per l’acquisizione dei dati da riutilizzare. Le richieste di utilizzo possono essere evase entro 2 mesi, ma nel caso di richieste particolarmente complesse è possibile prorogare la consegna di 30 giorni, ovviamente il tutto dovrà essere comunicato per tempo al richiedente.

Le condizioni di riutilizzo dei dati devono essere trasparenti, non discriminatorie, oggettivamente giustificate e proporzionate alla natura delle categorie di dati e alle finalità di riutilizzo. Inoltre, gli enti pubblici che mettono a disposizioni i propri dati devono garantire che siano stati anonimizzati, nel caso si tratti di dati personali; oppure trattati con uno dei metodi di controllo della divulgazione in modo da preservarne segreti commerciali o contenuti protetti da proprietà intellettuale. Altresì potranno accedere ai dati in modo sicuro e controllato o da remoto o in una struttura fisica.

Il riutilizzo dei dati non deve essere sfruttato dagli enti pubblici a scopo di lucro, ma questi possono imporre tariffe per il servizio erogato. Le tariffe devono essere trasparenti, non discriminatorie, proporzionate e oggettivamente giustificate, e non devono limitare la concorrenza; inoltre dovrebbero agevolarne l’uso alle startup, alle PMI e agli enti che utilizzano i dati per motivi di studio e di ricerca; in questi casi quindi si può decidere di offrire il servizio con una tariffa ridotta o a titolo gratuito e sarà necessario stilare un registro degli enti che possono usufruire di questo vantaggio economico.


[1]REGOLAMENTO (UE) 2022/868 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 30 maggio 2022 relativo alla governance europea dei dati e che modifica il regolamento (UE) 2018/1724 (Regolamento sulla governance dei dati)https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:32022R0868&from=EN#d1e2656-1-1

[2]Direttiva (UE) 2019/1024 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, relativa all’apertura dei dati e al riutilizzo dell’informazione del settore pubblico https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:32019L1024

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Redazione Selefor CReFIS

Data governance act: Una visione d’insieme

Articolo di Giuliana Cristiano

Il 30 maggio 2022 è stato pubblicato il regolamento UE del parlamento europeo e del consiglio relativo alla governance europea dei dati e che modifica il regolamento (UE) 2018/1724[1].

Questo Regolamento stabilisce:

  • le condizioni di riutilizzo di determinate categorie di dati detenuti dagli enti pubblici all’interno dell’Unione Europea
  • un quadro di notifica e controllo per la fornitura di servizi di intermediazione dei dati
  • un quadro per la registrazione volontaria delle entità che raccolgono e trattano i dati messi a disposizione a fini altruistici
  • un quadro per l’istituzione di un comitato europeo per l’innovazione in materia di dati.

In merito al primo punto è importante specificare che esso rappresenta un ampliamento di quanto già regolamentato nel 2019 nell’ambito della direttiva 2019/1024. Con questo nuovo regolamento si intende sviluppare un meccanismo che permetta di riutilizzare i dati detenuti dagli enti pubblici di persone fisiche e/o giuridiche. I dati oggetto di analisi e protezione sono: segreti commerciali, professionali e di impresa, dati statistici e dati legati alla proprietà intellettuale, non rientreranno in questo regolamento in vece dati in possesso delle imprese pubbliche, da enti culturali o in generale d’istruzione, dati in possesso dalle emittenti pubbliche e ovviamente dati che, se diffusi, potrebbero minare la pubblica sicurezza, quindi quelli in possesso agli enti pubblici nell’ambito della difesa e della sicurezza nazionale.

Inoltre, il regolamento introduce un “servizio di intermediazione dei dati” che mira ad istaurare rapporti commerciali in un ambiente sicuro e protetto in cui titolari e utenti possano scambiarsi i suddetti dati su piattaforme digitali create appositamente per condividere gli stessi.

Per garantire affidabilità sarà creato un registro dei fornitori in modo che i potenziali clienti siano certi della provenienza e della sicurezza dei dati da acquisire.

I fornitori dei dati non potranno rivenderli o utilizzarli per trarne benefici personali, ma potranno imporre delle tariffe per le operazioni di condivisione.

Un ulteriore campo di azione riguarda la condivisione dei dati su base volontaria. Il regolamento definisce questo ambito come “altruismo dei dati”. Anche in questo caso è prevista la creazione di un registro a cui possono iscriversi le organizzazioni che intendono mettere a disposizione i propri dati per attività di cui posson beneficare tutti, ad esempio per la ricerca scientifica. L’altruismo dei dati è importante in quanto permette di sviluppare una rete solidale entro cui si utilizzino i dati non solo per fini di lucro ma anche per raggiungere degli obiettivi di benessere sociale che impattino sulla salute pubblica, sul miglioramento delle condizioni del traffico o più in generale sui cambiamenti climatici.

Per fare tutto ciò è necessario che i diversi Stati dell’Unione mettano in condizione enti pubblici e privati di condividere con le organizzazioni che mettono a disposizione questo servizio, per esempio, attraverso l’uso di piattaforme ad hoc o di altri strumenti digitali.

Il quarto e ultimo punto di analisi di questo regolamento riguarda la creazione di un comitato europeo per l’innovazione in materia di dati che sia costituito da un gruppo di esperti che possa aiutare la Commissione a rafforzare l’interoperabilità dei servizi di intermediazione dei dati, indicare dei quadri settoriali o intersettoriali di norme e prassi comuni per trattare e condividere i dati e per finire fa da facilitatore nella cooperazione tra gli Stati membri in merito alla gestione dei dati stessi sulla base delle novità apportate da questo regolamento.

Il Governance Data Act andrà in vigore al decorrere del 24 settembre 2023, mentre le nuove norme si applicheranno 15 mesi dopo l’entrata in vigore dello stesso.


[1] REGOLAMENTO (UE) 2022/868 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 30 maggio 2022 relativo alla governance europea dei dati e che modifica il regolamento (UE) 2018/1724 (Regolamento sulla governance dei dati) https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:32022R0868&from=EN#d1e2656-1-1

 

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Giuliana Cristiano

Tirocinante psicologo presso Selefor s.r.l. 

Il comitato europeo per l’innovazione in materia di dati

Articolo a cura di Redazione Selefor CReFIS

Il Data Governance Act, all’articolo 29, stabilisce la necessità di creare un comitato europeo costituito da un gruppo di esperti rappresentanti le autorità competenti in materia di riutilizzo dei dati, servizi di intermediazione dei dati e altruismo dei dati.

Il comitato deve essere costituito da rappresentanti: del comitato europeo per la protezione dei dati, del garante europeo della protezione dei dati, dell’ENISA (agenzia dell’Unione europea per la cybersicurezza), della Commissione, del rappresentante dell’UE per le PMI e da altri rappresentati di organi specifici nonché di organi con competenze specifiche.

Nello specifico il comitato dovrà essere composto da 3 sottogruppi: il primo sottogruppo è formato dalle autorità competenti per i servizi di intermediazione dei dati e delle autorità competenti per la registrazione delle organizzazioni che collaborano per l’altruismo dei dati; il secondo sottogruppo ha lo scopo di intervenire nelle discussioni tecniche sulla normazione, portabilità e interoperabilità; il terzo sottogruppo è composto da rappresentanti delle imprese e organizzazioni di ricerca e universitarie, nonché della società civile e di normazione; nello specifico è necessaria la presenza di rappresentanti pertinenti delle imprese, quali sanità, ambiente, agricoltura, trasporti, energia, produzione industriale, media, settori culturali e creativi e statistica.

Le riunioni del comitato vengono presiedute dalla Commissione che fornisce allo stesso un segretariato.

Il comitato, dunque, ha come scopo principale quello di affiancare la Commissione europea affinché la consigli nei processi decisionali e nella gestione delle prassi per il riutilizzo dei dati da parte degli enti pubblici, delle prassi per la creazione dei servizi di intermediazione dei dati e per la creazione di registri in cui sono indicate le organizzazioni che per il principio altruistico mettono a disposizione i propri dati. Inoltre, aiuta a trovare le strategie migliori per la protezione dei segreti commerciali, dei dati non personali e dei dati protetti dalla proprietà intellettuale dal rischio di accessi illeciti che possono portare al furto della proprietà intellettuale e allo spionaggio industriale. Ha altresì il compito di fare da mediatore tra tutti gli stati membri in materia di riutilizzo dei dati, intermediazione ed altruismo; per finire il comitato si occupa anche dell’elaborazione del modello europeo di consenso e al miglioramento del contesto normativo internazionale relativo ai dati non personali, compresa la normazione[1].


[1]REGOLAMENTO (UE) 2022/868 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 30 maggio 2022 relativo alla governance europea dei dati e che modifica il regolamento (UE) 2018/1724 (Regolamento sulla governance dei dati)https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:32022R0868&from=EN#d1e2656-1-1

 

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Violazioni di dati personali, tra rischi e investimenti

A cura di Redazione Selefor CReFIS 

La penetrazione delle tecnologie digitali nelle attività di famiglie, imprese e pubbliche amministrazioni implica la codifica di tali attività in dati che vengono elaborati per il perseguimento delle rispettive finalità. In questa prospettiva, i processi di funzionamento di un paese integrano trattamenti di grandi quantità di risorse informative, in tal modo delineando un nuovo modello socioeconomico di cui vengono esaltate, principalmente dagli economisti, l’efficacia e l’efficienza.

D’altro canto, la crescente dipendenza dalle tecnologie e dalle rappresentazioni informative che queste producono ha ampliato le occasioni di violazione per cui le organizzazioni e le persone sono esposte a rischi riguardanti diritti, libertà e legittimi interessi. Incidenti come quello che ha coinvolto la Regione Lazio nell’agosto 2021 sono chiari esempi di come una violazione della sicurezza informatica – nel caso specifico una indisponibilità di servizi e dati – possa produrre ricadute sugli interessati. Nel caso specifico l’indisponibilità ha riguardato dati relativi alle prenotazioni per la somministrazione dei vaccini con conseguenti disagi per le persone interessate rappresentati, tra gli altri, dall’inevitabile rinvio della somministrazione e del rilascio della relativa certificazione.   

Questo e altri casi mettono in luce anche il mancato adeguamento delle organizzazioni alle norme previste dal regolamento europeo relativo alla protezione dei dati personali che contemplano, tra gli altri obblighi, l’adozione di misure tecnologiche e organizzative idonee a prevenire le minacce che possano determinare, ad esempio, la loro distruzione, perdita o divulgazione non autorizzata e, se del caso, anche misure correttive per porre rimedio alle violazioni che si sono comunque verificate.

I soggetti pubblici e privati sono pertanto chiamati a organizzarsi e ad investire nella sicurezza dei trattamenti di dati personali. Ma sono proprio gli investimenti a rappresentare la nota dolente delle politiche di sicurezza, specie nelle realtà di piccole dimensioni dove tali investimenti trovano poco spazio sia per ragioni di limitata disponibilità di risorse economiche sia perché i manager tendono a considerarli solo un un flusso di cassa in uscita senza una prospettiva di rendimento. Prospettiva che, invece, esiste ed è rappresentata dai “costi evitati” e da altri “benefici intangibili” (accessori, supplementari) che, nel medio-lungo periodo, sono superiori agli investimenti in sicurezza richiesti. Tuttavia, per comprendere il ritorno derivante dagli investimenti in sicurezza (return on security investment) c’è bisogno di formazione continua, comunicazione, sensibilizzazione, affinché la sicurezza e la protezione dei dati personali possano trovare spazio nella cultura organizzativa, andando oltre le norme giuridiche.


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L’impatto dell’intelligenza artificiale (IA) sul mondo del lavoro: nuovi modelli organizzativi e nuovi compiti per l’HR

di Giuliana Cristiano 

L’introduzione delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro e delle organizzazioni è associabile, tra le altre cose, all’accelerazione tecnologica a cui si aggiunge una conseguente accelerazione dei cambiamenti sociali e dei ritmi di vita. Ci troviamo in quella fase storica che gli esperti hanno ribattezzato “era dell’industria 4.0” in cui le nuove tecnologie, sia nella produzione che nell’erogazione dei servizi, la fanno da padrona[1]. 

Nel mondo del lavoro, l’utilizzo di tecnologie sempre più sofisticate non sta andando a sostituire solo i processi che prima richiedevano uno sforzo fisico, come la produzione industriale, ma gradualmente sta invadendo anche un settore che fino a poco tempo fa era squisitamente umano, per esempio i processi aziendali di decision making e lo scambio di informazioni. La svolta decisiva in questo senso è avvenuta grazie (o a causa) della diffusione capillare di internet che è diventato una componente essenziale della vita quotidiana della quasi totalità della popolazione attiva mondiale. L’uso massiccio della rete ha determinato, come effetto collaterale, un costante e velocissimo accumulo di dati che, se usati con astuzia, sono uno strumento indispensabile per chi ha necessità di conoscere l’utente ultimo a cui va erogato il servizio o va offerto un prodotto. I big data infatti abbinati all’intelligenza artificiale, permettono il cosiddetto “learning machine” ovvero fanno sì che la macchina (il software) letteralmente impari dai dati che gli vengono messi a disposizione [2].

L’intelligenza artificiale d’altronde non è altro che un ramo dell’informatica, nato nel 1956, che permette di programmare le macchine affinché possano avere caratteristiche cognitive tipicamente umane [3]. L’IA ha un impatto decisivo su diversi livelli, da quello individuale a quello della società. Gli stessi modelli organizzativi hanno subito e subiranno notevoli cambiamenti: le principali sfide da affrontare sono legate alla necessità di acquisire sempre maggiori competenze da parte del personale per il suo utilizzo, capacità quindi di affrontare gli eventuali problemi tecnologici, la necessità di un continuo controllo e il bisogno di fiducia, nonché una ridefinizione della life-work balance. I rischi principali per i lavoratori e le aziende si traducono nella riduzione della privacy, nella possibilità di sviluppare una dipendenza da queste tecnologie e un forte stress lavoro correlato che potrebbe sfociare addirittura nel burnout. I vantaggi però, se l’IA viene usata bene, sono notevoli, in quanto si riducono i costi, vi sono maggiori e migliori feedback sul lavoro da parte della macchina, vi è un miglioramento della qualità dei servizi e prodotti offerti, e se si agisce adeguatamente sulla pianificazione dello smart working, va ad avere risvolti positivi anche sella qualità della vita dei dipendenti. Nonostante alcuni studi tra il 2016 e il 2017 stimarono una sostituzione della manodopera umana con quella artificiale che andava dal 10%[4] al 47%[5], dati molto più recenti hanno dimostrato che la cultura aziendale e l’intelligenza artificiale sono due aspetti organizzativi che si influenzano reciprocamente, tanto che è stato sviluppato un modello detto “CUE” (Culture-Use-Effectiveness Dynamic)che dimostra quanto la cultura migliora l’uso dell’IA che a sua volta migliora i rapporti del team. Questo circolo determina più efficienza e alte prestazioni. Traendo le somme, se utilizzata con astuzia e senza pregiudizio, l’intelligenza artificiale può essere una potente arma verso l’innovazione e il successo dell’azienda sia dal punto di vista produttivo che di benessere del lavoratore[6].

In questo contesto il lavoro degli HR è molto interessante in quanto oltre ad occuparsi della condizione di benessere del lavoratore già assunto, di cui abbiamo parlato poc’anzi, si occupano di acquisizione di nuovi profili. Se fino a qualche anno fa, il recruiter doveva scegliere tra una vasta gamma di offerenti che si proponevano attivamente, oggi, anche grazie alle nuove tecnologie, la cultura del lavoro è cambiata al punto che il potenziale lavoratore è fondamentalmente passivo, carica il suo cv su piattaforme ad hoc e aspetta che sia l’azienda a proporsi. L’HR, quindi, può lasciare l’onere dello screening al software per dedicarsi ad un’attività più lungimirante: la talent acquisition, cioè non semplicemente il processo di ricerca di un lavoratore, ma la ricerca del “talento” adatto all’azienda non soltanto nella risoluzione del problema odierno, ma anche in visione dell’evoluzione dell’azienda stessa e dei suoi problemi a lungo termine[7].

Anche per il recruiting però bisogna agire con cautela: sono diversi, infatti, i casi in cui l’utilizzo dell’IA ha avuto esiti negativi sull’azienda, in particolare un esempio clamoroso è stato quello della grande multinazionale Amazon che a partire dal 2014 ha iniziato ad utilizzare un software per la selezione dei nuovi dipendenti da assumere. A questo software “era stato insegnato” a selezionare i candidati basandosi sui dati estrapolati dei curriculum di dipendenti assunti nei 10 anni precedenti, prevalentemente uomini: si arrivò al punto che la macchina aveva imparato che assumere uomini fosse meglio prediligendo CV con parole come: “eseguito” o “acquisito” tipiche degli ingegneri maschi e scartando quelli in cui c’era scritto “delle donne” o simili. Il software era sessista. Nonostante diversi accorgimenti la situazione non migliorò così il progetto fallì nel 2017[8], lasciando un insegnamento che almeno per ora non può essere ignorato: quando si tratta di scelte sul versante etico e morale, l’uomo ha e deve avere ancora la meglio sulla macchina.   


[1] Falcone, R., Capirci, O., Lucidi, F., Zoccolotti, P., Prospettive di intelligenza artificiale: mente, lavoro e società nel mondo del machine learning, in “Giornale italiano di psicologia”, n.1, pp.43-68, 2018.

[2] Ibidem

[3] www.Intelligenzaartificiale.it 

[4] Arntz M.T., Gregory T., Zierahn U., The Risk Of Automation For Jobs In Oecd Countries: A Comparative Analysis, in “OECD Social, Employment And Migration Working Papers”, n. 189, 2016.

[5] Frey C.B., Osborne M.A, The Future Of Employment: How Susceptible Are Jobs To Computerization?, in “Technological Forecasting And Social Change”, n. 114, pp. 254-280, 2017.

[6] Ransbotham, S., Candelon, F., Kiron, D., LaFountain, B., Khodabandeh, S., The Cultural Benefits of Artificial Intelligence in the Enterprise, in “MIT Sloan Management Review and Boston Consulting Group”, novembre 2021.

[7] Alashmawy, A., Yazdanifard, R., A Review of the Role of Marketing in Recruitment and Talent Acquisition, in “International Journal of Management, Accounting and Economics”, n. 7, pp. 569-581, 2019.

[8] De Casco A. F., Amazon e l’intelligenza artificiale sessista: non assumeva donne, in “Corriere della Sera – Tecnologia”, 10 ottobre 2018 online: https://www.corriere.it/tecnologia/18_ottobre_10/amazon-intelligenza-artificiale-sessista-non-assumeva-donne-4de90542-cc89-11e8-a06b-75759bb4ca39.shtml  

 

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Giuliana Cristiano 

Dottoressa in Psicologia applicata ai contesti istituzionali
Psicologa Tirocinante in Selefor srl  

Dall’idea al prodotto finale: l’uso intelligente dei big data

Di Giuliana Cristiano

Eric Ries nel 2012 definì la startup come “un’istituzione umana studiata per creare nuovi prodotti e servizi in condizioni di estrema incertezza”. Seppur con questo termine si va ad inquadrare una impresa allo stato nascente (in Italia con meno di cinque anni), lo startupping deve essere considerato più una filosofia imprenditoriale dedita alla continua innovazione e trasformazione, in cui quindi l’uso della tecnologia a proprio vantaggio ne è l’essenza[1]. L’imprenditore, in questo caso spesso definito con l’anglicismo “founder”, è un individuo ambizioso e consapevole che seppur stia rischiando investendo una somma di denaro più o meno ingente sulla propria idea, lo sta facendo con lo scopo di apportare un cambiamento prima alla propria realtà e poi a quella globale[2].

La startup, quindi, paradossalmente più che un fine imprenditoriale, potrebbe essere concepita come un mezzo attraverso cui permettere il cambiamento.

È importante tener presente che innovare non significa solo inventare qualcosa di nuovo, ma anche analizzare l’esistente e modificarlo per renderlo accessibile ad altri[3]. Il punto di forza sta nell’essere in grado di osservare il mondo ragionando fuori dagli schemi evitando di cadere nella cosiddetta doppia opacità: non vediamo altre alternative alla realtà e non ci accorgiamo di non vederle[4].

Ma quindi oggi nel pieno della nuova era industriale in cui la trasformazione digitale la fa da padrona, come si può superare tale opacità e rendere la realtà più “trasparente”?

I big data sembrano essere l’arma vincente e la risposta a questo quesito, in quanto permettono una perenne innovazione e garantiscono la competitività sul mercato[5]. Assumere un modello organizzativo che non contempli l’uso di questi dati con il passare del tempo potrebbe diventare rischioso in quanto le aziende potrebbero gradualmente perdere terreno e addirittura fallire[6].

Prima di approfondire è necessario dare una definizione di “big data”: con questo termine si intende un insieme molto vasto di dati derivanti sia dalle attività concrete burocratiche, legislative, economiche e di pianificazione, sia un accumulo spontaneo di informazioni derivanti dall’uso sempre più consistente di internet in cui vi è un perenne scambio di informazioni[7] spesso anche molto personali come preferenze, stile di vita, ambizioni e aspettative.   

Gli imprenditori, dunque, devono avere nel team qualcuno che sappia maneggiare con abilità quest’arma in particolar modo tenendo in considerazione l’estremo potere dei social su cui ognuno riversa la propria vita. Capire quali sono i gusti, le preferenze, lo stile di vita, le ambizioni e i valori del costumer, permette di vendere meglio e di più e quindi garantisce non solo la sopravvivenza dell’impresa e il suo successo, ma anche la soddisfazione del cliente.

D’altronde lo stesso Ries, nel 2012, propose di “uscire dal palazzo” cioè incontrare i consumatori e capirne le esigenze sviluppando un prodotto che sia in linea con le stesse[8].

I big data però possono avere anche dei risvolti negativi in quanto la quantità, la velocità di accumulo e la varietà degli stessi, potrebbe generare confusione e innescare bias “di conferma”, problemi di comunicazione e illusione di controllo, ma utilizzando il metodo lean startup ciò potrebbe essere arginato in quanto esso si fonda sulla perenne verifica “scientifica” delle idee e delle ipotesi manageriali. Questo processo è decisamente funzionale soprattutto per quelle realtà organizzative con alti livelli di incertezza tecnologica come le startup o in generale le aziende che puntano all’innovazione[9].

Traendo le somme il processo circolare che conduce allo sviluppo e permette costante innovazione nonché quindi il successo dell’impresa, è rappresentabile come una sequenza input-output:

 


[1] Ries, E., La startup way, Franco Angeli Editore, Milano 2017.

[2] Schumpeter, J. A., Teoria dello sviluppo economico, Milano, ETAS 2002.

[3] Ries, E., Partire leggeri: il metodo lean startup,  Rizzoli, Milano, 2012.

[4] Ota de Leonardis, Istituzioni, Carocci Editore, Roma 2001.

[5] Behl, A., Antecedents to firm performance and competitiveness using the lens of big data analytics: a cross-cultural study, in “Management Decision”, n.2, 2022, pp. 368-398.

[6] Nuccio M, Guerzoni M., Big data: Hell or heaven? Digital platforms and market power in the data-driven economy, in “Competition & Change”. N.3, 2019, pp.312-328.

[7] Aragona, B., Big data o data that are getting bigger?.  In “Sociologia e ricerca sociale” n. 109, 2016, pp. 42-53.

[8] Ries, E., Partire leggeri: il metodo lean startup, cit.

[9] Seggie, S. H., Soyer, E., & Pauwels, K. H., Combining big data and lean startup methods for business model evolution, in “AMS Review”, n.3, 2017, pp. 154-169.

 

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Giuliana Cristiano 

Dottoressa in Psicologia applicata ai contesti istituzionali
Psicologa tirocinante in Selefor srl 

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